Giovanni Papini
Pubblicato in:: Rivista d'Italia, anno XXII, fasc. XI, pagg. 394 – 401.
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Data: 30 novembre 1919
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È proibito parlare seriamente e lungamente di scrittori contemporanei: e allora io mi dò alla pazza gioia di scrivere un altro libro 1 su un altro scrittore contemporaneo, Papini, in attesa di finire dentro al carcere delle definizioni logiche ed illogiche cui sarò certamente condannato.
Bisogna aspettare che lo scrittore muoia: trattenere ora i nostri impeti d'ardore, di passione, d'amore; staccar il cantino della nostra chitarra per dare color grigio, poi, alle lacrime spremute dagli occhi per la sua discesa nella tomba, in modo che il nero, per il futuro funerale, possa essere ben marcato. Io non posso staccar nulla perché la mia lira ha una corda sola — per cantare di un mio amore forte e disperato.
Però negli intervalli, mi piace attardarmi in collaborazione con altri spiriti, sieno pure dissimili dal mio, ma abbiano una personalità speciale, che riveli come potenza la mia debolezza e nello stesso tempo sia gonfia del doloroso momento storico in cui viviamo.
Papini è di queste personalità: uomo che ha trovato dopo una distillazione cerebrale della realtà vitale, e un inzuppamento nel fiume delle impressioni (ora filosofo — testa al di sopra delle nuvole — ora critico minatore infelice nelle viscere della realtà — per vedere il tutto, prima; il particolare, poi), la sua salvezza nella poesia.
Respiriamo dell'aria rarefatta, e naufraghiamo in tenebre sotterranee, ma dopo, caduta di valanga e schianto d'anima: ecco la tragedia. Papini è l'incarnazione di un conflitto che non è rimastichio letterario, travaso di spirito, ma fatto di coscienza, doloroso tentativo di scavalcare la vita, dopo un esperimento di sfoghi per calmarsi e di bagni in ondate liriche per illimpidirsi.
Tenuto curvo e fermo sul suo cammino dalle conseguenze ultime della sua idea filosofica, mentre tutto vive e tende alla vita, sente che l'arte non è un oblio, un'atmosfera armoniosa di dimenticanze, ma un
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colorito austero avvincente movimentato ricordarsi; non è ripiegamento ma attività di tutte le facoltà.
Alcuni dicono: ma quel centinaio di racconti (parallela illustrazione di quell'infeconda menzogna che è la sua morbosa nevrastenica filosofia) onde Papini riuscì ad affermarsi non sono una feconda generazione di verità, non rappresentano un'espressione di dramma della coscienza e della volontà! C'è un arresto. Tutte le coscienze si fermano a quel dato punto. — Anche Papini vuole quel tanto — vuol questo e nulla di più.
Invece, da una visione panoramica della sua trilustre attività, risulta che egli vuole — sempre di più — sempre altro per un bisogno sempre crescente di maggiore religiosità (armonia) e di riscatto.
Riconosciamo pure durezze e cattivo gusto in certe macerazioni snervanti dell'espressione (Buffonate): ma anche qui non manca lo spiraglio da cui si veda — in una malata sensibilità che si ricompone — la possibilità di slanciarsi in una ricerca più eroica, più sana, più pura; di allargare i confini della rassegnazione (schiavitù) fino alla più grande vita (libertà).
Riconosciamo pure che quella sua primordiale audacia di barbaro, quella sua caparbietà clamorosa — a volte anche enfatica — ha minacciato di infrangerlo, di schiacciarlo, senza rimedio di resurrezione: ma anche qui non manca la visione della sua figura lirica di rivoluzionario forte e strafottente.
Vogliamo separare la menzogna dalla verità, la finzione dalla sincerità, il falso dal vero? — Ma se questo miscuglio — che scoppia ogni tanto in saporose ironie: tagli e strappi, urli e risate, punture e bastonate: (quasi tutte le forme del comico) — è proprio il ricostituente tonico della personalità papiniana!
Bisognava trovare un posto: oggettivisti e soggettivisti, in Francia come in Italia, s'eran resi intrattabili. E lo sono anche oggi, e come! Allora: passare in rassegna gli artisti più rappresentativi, vederli bene; un colpo qua magari, e una carezza là, ma conservare il proprio posto. Battaglia (e anche esercitazione di tiro, prima) contro ogni resistenza. È cosi.
Tutti hanno visto e detto che la vita di Papini è stata una battaglia: ma quel che ancora nessuno ha detto nè visto è che questa battaglia egli l'ha iniziata e continuata fino ad oggi contro sè stesso. Contro sè stesso, terribilmente e faticosamente solo, nel disprezzo delle parentele e delle compagnie artistiche.
Non vi pare che tutte la sue opere siano una ricerca ora rumorosa, ora pacata, di separazione spirituale?
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Anche il «mio futurismo», la più rumorosa entrata nel manipolo marinettiano e la più rumorosa uscita da questo, è la storia di una esperienza personale per allontanare sè stesso dal futurismo.
Il «Crepuscolo» è un lavoro personale per separare sè stesso da ogni filosofia.
«L'altra metà'» è un credito di tutta la fortuna delle sue idee ed espressioni all'avvenire, quindi una opposizione al presente.
Perfino il volume sul Pragmatismo vuol determinare attraverso teorie altrui, l'originalità delle sue teorie, cercare cioè il punto debole per avere motivi sufficienti di dividersi dai filosofi americani.
Anche «L' Uomo Carducci» — è una individuazione magnifica di sè stesso — malgrado certe autodefinizioni, imbottite di desideri più che derivate da attuazioni.
Per arrivare a questo, ha esagerato. Dunque si pensa da tutti, che ora e sempre deve esagerare.
Se arriva, rivoluzionario fra rivoluzionari, a sorpassare e negare nel momento stesso della conquista, ogni sua espressione; se arriva sempre che voglia, a buttar giù tutti i nemici intravisti ai margini dell' anima; se arriva a fare il libellista, il pazzo, l'oppositore, come se vivesse non in un mondo reale per tutti, ma ideale proprio, vuol dire che non sa buttar giù nessuna parte di sè stesso, che non sa rinunciare a nessuna per il suo sgomentante sforzo di abbracciare e penetrare la poesia.
È forse il suo lato più bello. Gli fanno un torto di aver lanciato delle invettive contro Roma. Vogliamo fare un elenco degli artisti, (teologi, filosofi, poeti) che hanno vilipeso la città o qualche parte della città eterna? Insomma le sue critiche abbiano o non abbiano un valore letterario, anche se si attribuiscono loro degli effetti di propaganda negativa, restano sempre quelle che vogliono essere: cure periodiche per guarirsi, quindi espressioni di sapore ironico e crudo.
Di questa malattia che l'intellettualismo e la vita libresca, sviluppano al punto di uccidere l'anima del poeta e il cuore dell'uomo, egli rese conto a tutti, dopo che l'intelligenza si fu esercitata a scoprire, in un libro che è la vita (scarna di episodi), e la vita di tutti i giovani nati con l'ambizione di non tenersi sotto a nessuno (un «Uomo finito»).
C'è dell'Aretino e del Carducci? C'è anche l'elemento primitivo da cui uscirono ugualmente l'Aretino e il Carducci, ma si è manifestato quando la personalità papiniana ha dovuto urtare in un mondo critico in cui il sentimento dell'arte era esausto, e l'inspirazione era sterile, e la spontaneità era intoppata da ragionamenti critici. L'aspetto uniforme di
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quel mondo pedantesco cui il «Leonardo» si trovò faccia a faccia ebbe un formidabile contraccolpo dalla vivezza, dalla mordacità, dalla audacia e anche dalla soperchieria di pochi spiriti attivi e indipendenti, fra i quali Papini era il più abile nel tirare stoccate. Dopo, questo esercizio — non di schioppo o spada — ma di lingua, si è convertito in una simbolica sedia elettrica; prima stroncava ora ammazza. A tutto suo danno. Ma anche l'Aretino insegnava che «li colpi non si danno a patti».
Questo esercizio metteva in evidenza delle qualità che l'Aretino o qualche altro scrittore del cinquecento possedevano in sommo grado: spontaneità e brio della forza in uno stile evidente e deciso.
Ma se anche si vuole ammettere come tratto dominante nel carattere di Papini quella sensibilità nervosa che si risolve in modi bruschi, violenti, gelidi; anche se si vuol farne un Boileau, frondeur che abbatte idoli venerati, mena lo staffile della sua critica contro i cattivi libri e i cattivi autori, come la coscienza gli detta, senza contare se ferisca possibili potenti protettori, bisogna anche ammettere che il fondo onesto e franco della sua natura è costellato di tratti di generosità e di bontà, di offerte e di strette di mano, e che le sue qualità non escludono una poesia fatta di sensibilità e di immaginazione: egli ha cuore per farle calore e fantasia per arricchirla.
Ma anche il farne una derivazione di Rimbaud, la è un po' marchiana. Lo sparpagliamento rimbaudiano contrasta con la coesione papiniana: Rimbaud transfuga volontario della vita quotidiana, si ammira suggestionati dai casi della sua avventurosa esistenza; Papini sradicatore di concetti tradizionali per una bayliana concezione della critica, (dubbio fondamentale su tutto e curiosità universale di saper tutto: assalto e massacro, e poi riposo in sè medesimo) poeta pieno nell'anima e negli occhi della sua Toscana, si presenta qual'è nei libri. La sua vita — divisa metodicamente tra Firenze e Bulciano — è in dominio di pochi. Giacinta, Gioconda e Viola animano lo scenario familiare che pochi hanno visto e conosciuto.
La poesia è dentro, nell'intimo, in luce, soavità emozione.
Papini dimostra chiaramente che possedere una cultura solida, uno stile ampio in cui soffia dentro potente vigoroso, amaro e caustico, dolce e impetuoso, ardito e profondo il desiderio di essere e di fare, di costruire e di distruggere, non arrestano ciò che si chiama sbocco lirico, nativa disposizione della poesia.
C'è ancora un discreto numero di poeti che intende la poesia come una partenza da concepimenti letterari e un ritorno ad essi: polarizzazione in metri e ritmi, e memorie del mondo esterno — e
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c'è un esiguo numero di veri poeti che hanno un tipo — motore proprio, pei quali lo sbocciare del canto è più indizio di espressione che vera e propria espressione, tanto la loro parola interiore è immune di letteratura, globale, musicale intensa — come molte parole unite.
Dai primi s'è avuta una incosciente esperienza sonora, dai secondi una travagliata esperienza musicale: ma i letteratoidi — tanto per usare una loro frase classificatoria — non riescono ad ampliare il mondo della nostra commozione, nè ad impressionarci durevolmente, mai. I poeti invece, quelli che sanno trasfigurare la parola in espressione nativa, ridestano in noi tutte le affinità concorrenti all'espressione stessa, rivelano — a svolgimento compiuto — delle complesse trame vitali, coordinano, per forza di interiorità (armonia) tutte le direzioni dell'attività interiore, fino a raggiungere il massimo potere di affinità e di consenso con gli spiriti di ogni epoca.
Questi poeti son pochi: due o tre per ogni generazione. Della nostra epoca, in Italia, fra i tre o quattro spiriti più attivi che sono il risultato dei tempi nuovi, astri maggiori intorno a cui si aggruppano schiere di giovani animati dallo stesso spirito c'è Giovanni Papini.
Papini, questa parola-diamante, questo verbum-raggio che parte dal centro delle attività spirituali collegate musicalmente, e piove fasci d'oro sulle forme di tutte le cose, e trapassa le nuvole come trapassa il cuore, Papini questa parola l'ha detta, a quando a quando, nei quindici anni della sua vita di scrittore e di uomo, in pagine dense di poesia — le uniche che ieri e oggi siano andate esenti da ogni critica.
Le esercitazioni froebelliane di certi critici, riducendo la rivelazione del ritmo interiore (equilibrio di sentimenti, visioni) a una questione di ingegneria letteraria, negano quegli aloni di vibrazioni che tutte le «100 pagine», gran parte di «Opera Prima», e quasi tutto i «Giorni di festa», lasciano in sè; perchè il giudizio non è totale; vi manca la conquista dell'intimo fulcro: scopo di chi legge e giudica per aumentare sè stesso. E non sanno in genere che cosa è del poeta, cosa è del critico; quali e quanti sotto i passi veri e giusti del creatore alla sua opera.
Analizzare se sì o no le «precipitazioni» (100 Pagine di poesia) sono una propaggine rimbaudiana, se sl o no il respiro ritmico, intenso delle poesie di Opera Prima con quel martellamento cadenzato che ti richiama all'orecchio gli usati metri, è uno scampanio sonoro o una musica affannosa per ansia dell'interno più profondo, è tempo perso. Bisogna invece vedere come il discorso, — il logos — è fuso, come le immagini sono accordate nello stesso respiro, gonfiate dal
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medesimo entusiasmo, rette dalla medesima forza. Questo nella poesia di Papini c'è.
A parte, che dal Crepuscolo ai Giorni di Festa (cito così, dalla filosofia — o dalla prosa polemica — alla poesia, perchè conte non si può scindere Papini in «uomo e poeta» così non si può distinguere in lui il polemista, il filosofo, il critico, l'erudito dal poeta) ogni suo libro sconfina nell'altro (sicchè tu leggi sempre il Papini, non un libro di Papini), noi troviamo nelle 100 Pagine, in Opera Prima, in Giorni di Festa, gli stessi atteggiamenti, ma in mosse più salienti, onde si frangeva e impennava, strideva e irrompeva in urti e offese, il Papini delle quattro serie di Cervelli dell'Uomo finito del Tragico Quotidiano e dell'Altra metà composto in un aspetto che la lontananza rischiara, dandogli coerenza. C'è meno frastagli e meno sbavature che non si creda. Ha fatto anche lui le sue brave esperienze, ed è venuto anche lui violentando cose e parole, per imporre con orgoglio delle cose brutte; ed anche ha voluto far vedere, alla curiosità ansiosa, che astuzie consapevoli e diamanti chimici se ne scovano a iosa nei nascondigli della letteratura; ma è rimasto e rimane palombaro d'anime o pirata all'arrembaggio — portiere di scrigni segreti nel caos di fantasticherie d'accatto o artigiano in maniche di camicia per polemicherie spicciole — l'affermatore di un nuovo senso di tragicità coerente e virile: sospensione paurosa d'uno spirito che, sollevato il velo sulla propria impotenza ad afferrare tutto e cantare la parola divina, si vede come un fiore in sfacelo che aspira la freschezza primitiva della pioggia benefica.
Questo non è tutto Papini. La sua tragedia è la tragedia di moltissimi spiriti contemporanei: ma vuole essere seguita amorevolmente per esprimere la sua sostanza e per rivelare la sua bellezza, vuole essere attentamente esaminata. Ci vuole partecipi, vicini, raccolti in essa medesima, sennò ci sembra interessante — ma non necessaria, voluta ma non vissuta.
Vuole — perchè è necessaria esteriorizzazione dell'intimo — la nostra adesione.
Quelle figure, deformate, mozzate e allungate che saltano su dal suo cervello nelle novelle del Tragico Quotidiano e di Parole e Sangue, inzuppate di paradossi, non valgono niente per il cuore di chi assiste al dramma, se non fa suo lo spirito del dramma stesso: obbiettivazione dell'irreale inteso, sentito e voluto come reale.
Così, chi non conosce tutto Papini, chi cioè non ha vissuto sentimentalmente e criticamente la vita di questo malato di cerebralismo o intellettualismo ritornato per forza di volontà e saldezza di cuore,
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a contatto con la propria anima e con l'anima delle cose, non può valutare imparzialmente il raccogliersi in sè stesso, lo specchiarsi nel suo più profondo cuore che si è verificato con 100 Pagine di poesia e Giorni di festa.
Bisogna veder Papini dal Leonardo in su fino alla battaglia per la chiusura delle scatole.
Lo rivedete camminare sull'orlo dell'abisso o sulle lame di spade vicino a cadere e compromettersi una volta per sempre. Cento volte così, non è mai riuscito a cadere.
Ora pare che ci sia una sorda reazione fra i batraci degli acquitrini formati dal suo fiume, ha una sua ricomparsa, un bercio, un fischio, perchè tutti si rivoltino a guardarlo.
Bisogna veder Papini intero: ci ha avvolti nei primi anni della nostra attiva giovinezza in una specie di vapore anestetizzante. ma ci ha recato anche del nutrimento per la vita del nostro spirito.
Debbono a lui parecchio, il maggior numero degli scrittori più accreditati: anche quelli che oggi tentano di fargliela addosso.
Egli è però un uomo padrone di sè (i suoi incitatori sono andati per altre vie) sempre libero e perciò è facile a cadere in errore, non posseduto nè da timori nè da incertezze; egli è un uomo che tratta sempre una materia spesso scoriosa, non sempre buona, ma un uomo che canta e soffre e sa commuovere. È giunto alla piena signoria delle sue attitudini creative, si è fatto prodigiosamente esperto nell'uso della nostra lingua: è uno dei più coloriti e vivi scrittori d'Italia. Il suo nome è stato la bandiera intorno alla quale la nuova generazione ha combattuto: soltanto gli ultimi venuti, perchè hanno sentito dire da pochi che la sua influenza sui giovani è stata nefasta, fanno la riprova del loro gusto sulla prima impressione indistinta e sommaria riportata dalla lettura di un solo libro — il più recente. E concludono: un cinico!
C'è un valore logico e un valore morale che non si nega nell'opera di questo inquieto atomo nato all'arte in un momento in cui le idee non avevano efficacia sulla coscienza, e i poeti, i critici, gli artisti in genere, facevano un carnevale intorno a dei cadaveri in putrefazione.
Gli scettici sono stati, in genere, i più sinceri maestri di vita; i cinici hanno insegnato dove c'era libertà di passo e dove invece c'era «bandita», assai meglio di tutti gli ipocriti mansueti e cafoni di tutte le epoche e di tutte le letterature, che oscillano fra scrupoli e dubbi senza riuscire a definire sè medesimi.
Papini si definisce? Uno scettico, un cinico, un nichilista.... se n'è sentite di tutte.
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Tutti hanno ragione e nessuno ha ragione: ma quando si dice che è un poeta, tutte le particolarità del suo contegno, tutti gli episodi della sua vita d'uomo e di scrittore, diventano come i bassorilievi illustrativi che si murano torno torno alle statue, nelle piazze e nei cimiteri.
Della posizione di Papini nella temperatura contemporanea, e di tutta l'opera sua rendo conto in un volume di prossima pubblicazione: queste pagine che sono come un prolungamento della sua figura possono dunque continuare e terminare qui.
Notizia biografica per chi tiene alle distanze del calendario: Giovanni Papini, poeta e letterato, nacque a Pieve Santo Stefano in quel di Arezzo, nell'anno del Signore 1881.
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